Quando si parla di “intelligenza emotiva” e “salute emotiva”, si incontrano spesso reazioni scettiche.
Il pregiudizio, comune non solo a scuola, è che sia una cosa di scarsa importanza: meglio pensare alle “cose serie”. Come se la capacità di comprendere e gestire i propri sentimenti per calmarsi, concentrarsi, relazionarsi in modo efficace con gli altri fosse cosa poco seria.
Del resto, per decenni siamo stati “educati” a evitare o distogliere lo sguardo dalle nostre emozioni negative, considerate dei meri ostacoli allo sviluppo. Se eravamo tristi, ci veniva detto “Non piangere”. Se eravamo arrabbiati, ci veniva detto con impazienza di smettere di urlare. Se ci sentivamo frustrati, ci veniva detto: “Non ci pensare, non è niente”.
E veniamo da secoli in cui, nell’apprendimento, si è sempre privilegiata la dimensione cognitiva (i contenuti, le nozioni, le abilità concrete di pensiero e calcolo, e tutto quello che si può oggettivamente misurare) a discapito di quella emotiva e creativa. Come se il buon funzionamento cognitivo non fosse intimamente legato a un elevato grado di salute emotiva.
Veniamo da secoli in cui l’unica salute che contava era quella del corpo, mentre la salute mentale era completamente ignorata: in fondo, qualcuno ha cominciato a parlarne e portarla alla ribalta poco più di cento anni fa. E ancora oggi, prendersi cura delle proprie emozioni o andare dallo psicologo è da molti considerato segno di debolezza, fragilità, vulnerabilità. Una fragilità e vulnerabilità che, pur essendo del tutto umane, vogliamo a tutti i costi allontanare e negare.
E veniamo, infine, da secoli in cui si è sempre ritenuto che fare i genitori non fosse una “competenza” da acquisire: bastava diventarlo per essere automaticamente capaci di esserlo.
Mai assunto si è rivelato tanto erroneo, se penso alle quantità di adolescenti che incontro quotidianamente e che crescono in famiglie disfunzionali, con genitori disattenti o peggio, iperprotettivi, che per difendere i figli dalle emozioni negative legate al fallimento, cercano semplicemente di evitare loro qualsiasi occasione di fallimento.
E il risultato è che, quasi quotidianamente, ci ritroviamo a scuola a fare “pronto soccorso emotivo”: mi capita sempre più spesso di far fronte a crisi di pianto o di ansia per un compito o un’interrogazione, o legate a difficoltà relazionali o a un generale senso di inadeguatezza.
In questi casi, la cosa peggiore da fare è dire “Non piangere” o reagire con impazienza.
Di solito, basta ascoltare, lasciarli parlare, mandarli a fare due passi con un compagno o una compagna: dopo un po’, vedi i loro visi distendersi, sono pronti a lasciar andare quell’emozione che li attanagliava e li bloccava. E magari a riprendere con serenità quel compito o quell’interrogazione tanto temuta.
La chiave, in queste occasioni, è proprio resistere alla tentazione di minimizzare o “aggiustare” e reindirizzare l’emozione negativa (”non è niente, non devi avere paura, pensa invece che…”). Il segreto, come dice John Gottman nel fondamentale testo Raising an Emotionally Intelligent Child (link all’edizione italiana qui), è nella nostra capacità, come genitori ed educatori, di rispondere quando emozioni come rabbia, tristezza o paura si surriscaldano e prendono il sopravvento.
È quello che si chiama “emotion coaching” (allenamento emotivo): i bambini e i ragazzi che lo ricevono imparano a regolare il loro stato emotivo, a calmarsi quando sono frustrati o agitati; comprendono meglio gli altri e instaurano amicizie più profonde; imparano a concentrarsi meglio e rendono di più a scuola.
È stato anche dimostrato che sono meno soggetti al rischio di sviluppare ADHD o contrarre diverse patologie, tra cui quelle cardio-vascolari.
Davvero queste sono cose poco serie?
La prossima volta che qualcuno storce il naso o liquida con sufficienza le nostre iniziative per portare avanti la salute emotiva dei ragazzi, rispondiamo che non c’è cosa più seria di questa.
Come dice la pediatra Nadine Burke Harris, “il movimento siamo noi”: sta a noi invertire la rotta, portando avanti l’allenamento emotivo di bambini e adolescenti, e sensibilizzando quotidianamente gli adulti sulla necessità di mettere questo tema al centro dell’educazione.
Weekly spark ✨
Su questo tema che ritengo cruciale e su cui tornerò ancora, voglio condividere, per questi ultimi giorni di agosto, una piccola collezione di TED talk per ispirare e allargare le prospettive 🔥
Lael Stone: “How To Raise Emotionally Intelligent Children”
Talk emozionante sull'importanza di ascoltare e accogliere i sentimenti dei bambini senza cercare di "aggiustarli" o reprimerli, mettendo l’alfabetizzazione emotiva al centro del sistema educativo.
Guy Winch: "Why we all need to practice emotional first aid"
Fallimento, solitudine, perdita possono farci star male e aumentare i rischi di malattie cardio-vascolari: Guy Winch spiega l'importanza dell'igiene emotiva e come prenderci cura della nostra mente con la stessa attenzione che riserviamo al nostro corpo.
Nadine Burke Harris: "How childhood trauma affects health across a lifetime"
Un talk illuminante sull’impatto concreto e scientificamente dimostrato di traumi infantili e malessere psicologico sulla salute fisica e sul funzionamento del cervello.
Lisa Feldman Barrett: "You aren't at the mercy of your emotions -- your brain creates them"
Le emozioni non sono semplici risposte a stimoli esterni, ma vengono create dal nostro cervello. Lisa Feldman Barrett ci insegna come possiamo avere più controllo sulle nostre emozioni di quanto pensiamo.
Tiffany Watt Smith: "The history of human emotions"
Il linguaggio che usiamo per descrivere le emozioni cambia nel tempo e influisce su come le percepiamo: una prospettiva storica molto interessante, che aiuta a considerare e ridimensionare le emozioni come qualcosa di relativo e transitorio.
Buona visione e alla prossima settimana!